«Ho visto personalmente bruciare 71 cadaveri »,
ha rivelato un testimone oculare alle fonti del Corriere. La notizia è
stata confermata, dall'ex capitale birmana, anche da un giornalista del
Sunday Times, anonimo per evidenti ragioni di sicurezza, dato che la
giunta militare è pronta ad arrestare qualunque reporter che sia
entrato nel Paese con l'unico stratagemma possibile: un visto
turistico. La descrizione di quanto avvenuto è raggelante ma non
consente di stimare un bilancio, neppure approssimativo, di quante
siano effettivamente le vittime della repressione. La giunta è ferma a
dieci uccisi «ufficiali». Mentre per l'opposizione democratica i morti
sarebbero «almeno duecento ». Secondo il settimanale britannico, fonti
differenti hanno riferito a diplomatici e volontari di organizzazioni
internazionali come, sin dalla notte del 28 settembre, ovvero a 24 ore
dall'inizio delle violenze nei monasteri e della sparatorie nelle
città, camion militari coperti da teloni verdi siano stati osservati
mentre si dirigevano nell'area del crematorio pubblico. Le strade che
portavano verso l'edificio erano guardate a vista da soldati in assetto
di guerra, pronti a minacciare di morte chiunque si fosse solamente
affacciato alle finestre di casa. «Non c'è stato alcun tentativo di
identificare i corpi — ha spiegato al reporter del Sunday Times un
diplomatico occidentale —. Nessuno si è preoccupato di restituire i
resti alle famiglie o semplicemente garantire un minimo rito funebre
secondo la tradizione buddista». Sandar Win, una dissidente esule a Mae
Sot, lungo la frontiera birmano-thailandese, pochi giorni fa aveva
confermato al Corriere: «Mio marito era rimasto in Birmania, era uno
dei leader della rivolta. È stato prelevato dalla polizia politica per
essere "interrogato". Pochi giorni più tardi i miei figli mi hanno
telefonato per informarmi della sua morte, "accidentale" secondo le
autorità. Abbiamo chiesto il corpo indietro: non abbiamo nemmeno avuto
una risposta». La pratica di bruciare i cadaveri per impedire un
bilancio ufficiale della repressione non è nuova, in Asia.
Anche l'esercito cinese fece sparire nello stesso modo i
resti di molti degli uccisi a piazza Tienanmen, nel giugno 1989. Allora
i camini del crematorio di Babaoshan, il «cimitero degli eroi» a
Pechino, emisero un lugubre fumo grigio per giorni: adesso lo stesso
agghiacciante spettacolo è visibile nell'ex capitale birmana. A
Rangoon, oltre a queste notizie, autentiche secondo la locale comunità
diplomatica perché confermate da fonti diverse, si sono diffuse voci —
anche queste credibili, purtroppo — che negli ospedali si registrano
ancora decessi nonostante la calma apparente nelle strade ormai perduri
da giorni. La ragione? «Ai medici — ha fatto sapere un volontario
straniero — non è stato consentito di curare i feriti: ordini precisi
dei militari. Senza alcun tipo di trattamento, è inevitabile che molti
tra coloro che hanno subito ferite possano essere morti nel giro di
pochi giorni». C'è da aggiungere che continuano gli arresti di civili e
monaci, con continui raid nei monasteri. Le autorità affermano che
sarebbero state sequestrate «armi e munizioni». E i media di regime
ammoniscono: «I monaci devono aderire alle leggi di Dio e del governo,
se violano tali leggi commettono reati».
Paolo Salom