Rohingya, i figli di un dio minore
'Pulizia etnica' dei musulmani in Myanmar. Intervista a Phil Robertson (HRW) e pareri ONUrighi

Rohingya, i figli di un dio minore

'Pulizia etnica' dei musulmani in Myanmar. Intervista a Phil Robertson (HRW) e pareri ONU

Francesca Lancini    Giovedì 11 Set 2014, 16:37

Neonati morti per fame. Bambini con addomi gonfi, labbra disidratate e infezioni cutanee. Maschi, di ogni età purché in forze, costretti a lavorare come schiavi nelle fabbriche di mattoni. Donne al capezzale dei famigliari malati. Questo accade in Myanmar ai Rohingya, popolazione musulmana di lingua bengalese che da mezzo secolo subisce discriminazioni e dal 2012 è bersaglio di attacchi da parte dei fondamentalisti buddisti. Le immagini diffuse dai media più autorevoli, come 'Time' e 'Bbc', svelano l’aspetto più preoccupante del percorso intrapreso dall’ex Birmania verso la democrazia. Ad aggravare la situazione, tra febbraio e marzo, l’espulsione di MSF (Medici Senza Frontiere) e la limitazione dell’intervento di Ong e agenzie umanitarie: i più vulnerabili hanno cominciato a spegnersi per patologie banali, mentre gli affetti da tubercolosi, malaria e Aids sono stati ridotti in agonia.

L’escalation di violenze organizzate è iniziata nel 2012, a un anno dall’instaurazione di un governo civile eletto - almeno formalmente - e due dalla liberazione della leader per la democrazia Aung San Suu Kyi. Nello Stato Rakhine (ex Arakan) è esploso un conflitto settario, con interi villaggi rasi al suolo, centinaia di morti e decine di migliaia di persone in fuga. Molti esuli musulmani si sono diretti verso il Bangladesh, di cui parlano la lingua, ma che a sua volta li respinge da decenni. Come contemporanei 'figli di un dio minore', i Rohingya non godono di alcun diritto. In questo ennesimo intrico birmano, però, attivisti e operatori umanitari non si arrendono. 

Pierre Peron, portavoce dell’UNOCHA (Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari) ogni mese si reca a Sittwe, capitale del Rakhine. A 'L’Indro' racconta: "Dall’inizio della crisi fra le due comunità, oltre 310mila persone hanno bisogno di assistenza. Si devono trovare delle soluzioni a lungo termine per 137mila sfollati e altri 100mila individui colpiti dal conflitto che hanno trovato riparo nei villaggi più isolati". Peron ricorda quanto sia complicato l’intervento delle organizzazioni internazionali dopo gli attacchi dello scorso marzo contro le loro sedi. Costrette a lavorare nel perimetro del quartiere meridionale di Sittwe, continuano a sperare in un’estensione dei loro margini di movimento. Per ora è rimasta inascoltata la denuncia della coordinatrice Onu per le emergenze, Kyung-Wha Kang, accompagnata nei campi dallo stesso Peron a giugno: «Mai vista una tale sofferenza». 

Intanto, l’operato delle Nazioni Unite e, in particolare, del suo UNFPA (Fondo ONU per la Popolazione) è stato criticato per  aver collaborato a un censimento che ha escluso 800mila Rohingya. L’UNFPA risponde a 'L’Indro' di aver tentato di evitare questa lacuna. Non essendoci riuscito, avrebbe proposto al governo birmano altre opzioni tecniche per registrare le comunità musulmane. La questione è in sospeso.

Ultima controversia, in ordine di tempo, quella legata al diktat governativo di non usare il termine Rohingya: "La nostra posizione è in linea con il principio che ogni minoranza ha diritto ad auto-identificarsi", spiega Peron. "Tuttavia, è una faccenda delicata. Lo staff sul posto può decidere di non usare questa parola per evitare ulteriori divisioni, accrescere i comportamenti estremi o condizionare le possibilità di intervento".

Non condivide tali giustificazioni Phil Robertson, vice-direttore della divisione Asia di HRW (Human Rights Watch), che vive in questo continente da vent’anni. Raggiunto da 'L’Indro' a Bangkok, ha accettato di rilasciare questa intervista esclusiva, entrando nel merito degli argomenti più sensibili. Per HRW, l’osservatorio sui diritti umani nato in tempo di Guerra Fredda (1978) e con quartiere generale a New York, non ci sono dubbi: nel Rakhine e in altre zone del Myanmar si sta consumando una 'pulizia etnica' e sono stati commessi 'crimini contro l’umanità'.

L’ultimo rapporto dell’organizzazione, «Two Years with No Moon: Immigration Detention of Children in Thailand», firmato dalla collega di Robertson, Alice Farmer, parla di migliaia di bambini incarcerati ogni anno nelle prigioni tailandesi. Questa è la drammatica conferma che da una crisi ne possono nascere altre: molti piccoli migranti e richiedenti asilo provengono dalle zone del Myanmar non ancora pacificate, con un picco di arrivi nel 2013, dopo i fatti tragici del Rakhine.

 

Vice-Direttore Robertson, come fuggono questi bambini?

I confini tailandesi con la Birmania, la Cambogia e il Laos sono un colabrodo. Migliaia di chilometri senza controlli. I bambini di questi tre Paesi accompagnano i loro genitori in cerca di lavoro. Quando le guardie di frontiera li catturano, finiscono in centri di detenzione per un periodo di diversi giorni o diverse settimane, prima di essere deportati nella loro terra di provenienza. Al contrario, i piccoli richiedenti asilo che arrivano da Paesi non confinanti possono incontrare più ostacoli perché, se catturati, non possono essere rimandati indietro.  Restano in carcere per un periodo indefinito, a meno che non si auto-finanzino la deportazione oppure ottengano asilo in un Paese terzo. Ovviamente, se tornassero a casa, sarebbero perseguitati.

Ci può fornire un quadro più aggiornato possibile delle condizioni dei Rohingya?

La situazione continua a peggiorare. I Rohingya sono rinchiusi in campi per sfollati, dove non hanno accesso a cibo adeguato, cure mediche o altri servizi; oppure vivono in villaggi remoti circondati dalle forze di sicurezza e dalle comunità ostili di etnia Arakan (rinominata dalla giunta militare Rakhine negli anni Settanta, ndr.) che impediscono loro di muoversi liberamente e di procurarsi i mezzi di sussistenza, allevando animali o pescando. Poiché non sono considerati cittadini, non hanno diritti e restano in balia di nuove violenze. L’espulsione di Medici Senza Frontiere, ordinata dal governo birmano, li ha privati delle uniche cure disponibili per i gruppi più isolati e vulnerabili: adulti e bambini Rohingya, dunque, stanno continuando a morire per disturbi che potevano essere guariti senza problemi sei mesi fa. Inoltre, le proposte fatte dagli Arakan, di ghettizzare ulteriormente i Rohingya in zone ristrette, aggraverebbero le sofferenze e le privazioni cui sono sottoposti. 

E’ plausibile che non possano essere cittadini come sostiene il governo? 

I Rohingya non sono inclusi all’interno dei 135 gruppi etnici riconosciuti dalla legge sulla cittadinanza del 1982. Di conseguenza, non è concessa loro automaticamente la cittadinanza. Piccoli gruppi possono ottenerla attraverso un processo contorto che riconosce il loro essere stati cittadini prima del 1982. Ma provarlo è impossibile: queste persone senza documenti dovrebbero dimostrare di essere state presenti nello Stato Arakan prima del 1823, quando i colonizzatori britannici se ne andarono.

Cosa dovrebbe fare il governo? Amnesty International riporta, come voi, che le autorità locali non hanno fermato le violenze o addirittura vi hanno preso parte.

Il governo dell’Unione dovrebbe promuovere il dialogo e la riconciliazione tra i due gruppi, indagando e denunciando chiunque, Arakan o Rohingya,  intenda alimentare l’odio etnico e istigare alla violenza. Deve garantire protezione effettiva ai Rohingya dalla polizia e dalle autorità locali che in passato hanno commesso abusi o ne sono state complici.

Siete riusciti a stabilire un dialogo con le autorità dello Stato Arakan e con quelle governative?

Quando la nostra delegazione, nel febbraio scorso, ha incontrato il presidente birmano Thein Sein, il nostro direttore esecutivo Ken Roth ha sollevato il problema degli abusi contro i Rohingya ed esortato il governo a riconoscere i responsabili di pulizia etnica e crimini contro l’umanità. Malgrado le nostre pressioni, il governo dell’Unione (il Myanmar è composto da sette Stati e sette Divisioni, ndr.) non ha fatto nulla. 

E con Aung San Suu Kyi, che non ha condannato apertamente le violenze e che ha negato una 'pulizia etnica', avete avuto contatti? 

No, nessuno.

 L’attivista e accademico birmano, Maung Zarni, ha parlato di 'genocidio' e 'neo-nazismo buddista' con riferimento al movimento estremista 969. Non è il solo, tra l’altro. Che cosa pensa di queste definizioni?

«Genocidio» è un termine di diritto stabilito dai trattati internazionali. Abbiamo valutato che gli abusi contro i Rohingya non hanno raggiunto la soglia del genocidio. «Nazismo»? Sembra che a Zarni piaccia usare etichette, ma a noi no. Ogni indagine accurata della situazione dimostra che c’è stata una pulizia etnica e che ci sono stati crimini contro l’umanità, già abbastanza gravi da motivare un interessamento internazionale.

 

Qual è il ruolo dei monaci buddisti nelle violenze?

Esiste un gruppo di monaci radicali e ultra-nazionalisti che vogliono influire su politiche e leggi per proteggere la Birmania e il Buddismo.

Questi ultimi ritengono che i principi della razza birmana e della religione buddista siano minacciati dai musulmani. Hanno giocato un ruolo centrale incitando e partecipando alle violenze settarie nel 2013 e durante quest’anno 

A fine agosto sono stati diffusi i risultati provvisori del primo censimento birmano dal 1983. Si conta che la popolazione del Myanmar è di 51 milioni di abitanti (9 milioni in meno rispetto ad allora), anche se  non sono stati considerati almeno 800mila Rohingya.

Il censimento ha peggiorato una situazione già seria. L’UNFPA e il governo non hanno capito che le domande sulla razza e la religione creano divisioni e sono pericolose. 

Come ha appreso gli ultimi annunci di rimpatrio dei rifugiati Rohingya dal Bangladesh al Myanmar? 

Le autorità bengalesi annunciano rimpatri ogni volta che incontrano i funzionari birmani, ma non accade mai niente. Più presumibilmente, il Bangladesh potrebbe obbligare alcuni Rohingya a ritornare contro la loro volontà. Gli esponenti della comunità internazionale stanziati a Dacca devono pretendere dal governo che nessuno sia rimpatriato con la forza.

Sempre di recente, il governo birmano ha ordinato alle organizzazioni internazionali di non utilizzare il nome Rohingya. Le Nazioni Unite si stanno adeguando. Fino a che punto si può arrivare a compromessi in Myanmar? 

Le Nazioni Unite non dovrebbero accettare questo compromesso, ma continuare a chiamare i Rohingya con il nome che si sono scelti per se stessi. L’incapacità dell’ONU di farlo è vergognosa. Dovrebbe essere condannata senza remore come un vile inchino alla fallace narrativa del governo su queste genti.

La situazione è così intricata che sembrano non esserci spiragli. Da dove partire per sbrogliarla?

Dobbiamo impegnarci affinché sia riconosciuta la responsabilità di chi ha compiuto crimini contro l’umanità. Le nostre accuse si riferiscono ai fatti dell’ottobre 2012, quando nello Stato Arakan ci furono attacchi contro i musulmani Rohingya e Kaman. Furono coinvolti funzionari locali e governativi. 

E il monaco Wirathu, leader spirituale del movimento estremista buddista 969, nonché guida del grande monastero di Mandalay? 

Poiché Wirathu non si trovava nello stato Arakan nell’ottobre 2012, non è stato incluso nella nostra indagine né accusato di crimini contro l’umanità per quel periodo.