9/24/2010
La maledizione dei rubini insanguinati: Lavoro minorile, lavoro forzato, stupri, deportazioni di massa: viaggio nel brutale mondo del commercio delle pietre preziose in Birmania
Articolo di Dan MacDougall -
Sono le pietre preziose dal più alto costo per carato sulla
terra e la Birmania ne è riccamente dotata. Il commercio di rubini birmani è
vietato ma, come ha scoperto un’indagine di Live, la corrotta giunta
militare del paese si arricchisce costringendo il popolo a lavorare
nell’estrazione delle pietre preziose in condizioni di schiavitù. Un business
in pieno boom.
Improvvisamente, nei pressi di un’ansa del fiume notiamo appena in
lontananza il chiarore appena percepibile di decine di lampade al kerosene.
Sullo sfondo del cielo notturno percepiamo le ombre di uomini, donne e bambini
che in silenzio scavano la roccia smossa a mani nude o tutt’al più con utensili
metallici spuntati.
Accovacciati lungo la banchina rocciosa corrono rischi
incalcolabili, rimediando nel pericolo appena qualche briciola sottratta al
banchetto della giunta militare. È a tutti gli effetti una missione suicida, ma
è come se negli occhi degli abitanti di questi villaggi rilucesse il fuoco
nascosto sotto quelle pietre scure dall’aspetto sinistro: perlustrano la terra
alla ricerca dei rubini.
Noti per la pronunciata fluorescenza, i rubini birmani – le pietre
preziose dal più alto costo per carato sulla terra – sono ricercatissimi in
tutto il mondo per il loro splendore, la qualità e soprattutto per il
particolarissimo e intenso tono di rosso definito “sangue di piccione”. Rubini
così non esistono da nessun’altra parte al mondo. Nell’arco dell’ultimo
decennio le campagne di Amnesty International e di Global Witness, oltre alle
interpretazioni in famosi film hollywoodiani di stelle quali Leonardo DiCaprio
e Nicolas Cage, hanno portato alla conoscenza del grande pubblico questi
“diamanti insanguinati”, in pratica pietre preziose estratte da miniere
localizzate in zone di conflitto e vendute nel segreto per finanziare
insurrezioni o eserciti dei baroni della guerra.
Si tratta tuttavia anche di
pietre preziose estratte per finanziare regimi militari, un commercio che per
il momento sembra essere sfuggito a un pari livello di attenzione
internazionale.
Secondo gli attivisti, questa omissione sarebbe particolarmente
evidente in Birmania, paese in cui i rubini più famosi al mondo continuano ad
essere estratti in condizioni di schiavitù. Quasi ogni pietra strappata al
terreno non fa altro che contribuire a rafforzare la posizione della giunta
militare al potere.
Secondo
il Dipartimento di Stato americano, l’estrazione dei rubini, al pari di quella
della giada, non soltanto sostiene finanziariamente la giunta militare birmana,
ma è anche al centro di innumerevoli quanto ben documentati crimini contro
l’umanità, quali il lavoro forzato nelle miniere, lo stupro sistematico di donne e
ragazze e la pulizia etnica nei
confronti di quelle minoranze all’opposizione che vivono nei pressi delle fonti
di questa ricchezza mineraria.
Il mese scorso la pressione internazionale
contro la Birmania si è rafforzata quando l’amministrazione di Barack Obama ha
deciso di sostenere l’istituzione di una commissione delle Nazioni Unite
incaricata di indagare su presunti crimini contro l’umanità e crimini di guerra
commessi nel paese.
La mossa del presidente Obama è arrivata nel momento in cui la
giunta militare birmana annunciava che le prime elezioni libere nel paese da 20
anni a questa parte si sarebbero tenute il 7 novembre. Secondo i critici questa
mossa verso la democrazia non costituisce null’altro che una farsa progettata
per perpetuare il potere politico dei militari e ridurre al silenzio buona
parte dell’opposizione, tra cui la leader pro-democratica Aung San Suu Kyi
attualmente agli arresti domiciliari.
Si è trattato dell’ultima di una serie di iniziative avviate dagli
Stati Uniti al fine di esercitare una qualche pressione. Nel 2008 il Governo
americano ha introdotto l’embargo contro l’importazione di rubini e di giada
birmani negli Usa. Un’iniziativa simile è stata successivamente adottata
dall’UE. E tuttavia, secondo i critici degli embarghi economici, la possibilità
che le sanzioni occidentali contro il commercio di pietre preziose costringano
i militari birmani a rinunciare al potere sono praticamente pari a zero. Come
scoperto da Live, grazie ad una
missione segreta in Birmania, il commercio di rubini ha in effetti raggiunto
massimi storici; davanti agli occhi della comunità internazionale le pietre
preziose vengono vendute nella capitale birmana Yangon nel corso di aste che
permettono di raccogliere quella valuta forte così disperatamente necessaria
all’establishment militare.
Negli ultimi cinquant’anni le miniere sono state nazionalizzate a
tutti gli effetti e oggi sono sotto il brutale controllo dei militari birmani.
Lungo la strada che conduce alla città, l’impronta del governo militare è
visibile ovunque, dai segnali stradali che ammoniscono i viaggiatori a non
spingersi oltre, all’abbondanza delle pattuglie dell’esercito.
“A Mogok ci sono rubini grandi come un pugno, ma addentrarsi nella
valle è impossibile”, ci dice il nostro autista mentre si rifiuta decisamente
di procedere. “Mogok è chiusa, signore. È chiusa da 10 anni”. La valle del
Nampai: è da qui che parte la strada dei rubini. Sotto i nostri piedi scorre
un’intricata rete di pozzi e gallerie che conducono ai rubini di maggior pregio
mai scoperti dall’uomo.
In questa valle strappare pietre preziose al terreno è un lavoro
incredibilmente duro. Enormi bulldozer scavano in profondità nel terreno, ma
anche oggi è la semplice manodopera che permette di raggiungere l’obiettivo. Il
metodo più comune per raccogliere pietre preziose è quello delle miniere a
cielo aperto.
L’estrazione richiede cannoni ad acqua ad alta pressione,
talvolta quattro che gettano acqua in contemporanea. L’acqua lava la sabbia che
contiene le pietre preziose; la sabbia viene quindi pompata in pozzi circolari,
dove il materiale pesante viene intrappolato in una serie di lunghi canali
delimitati da chiuse dai quali i rubini vengono recuperati a mano. Il materiale
più leggero viene lavato nella valle sottostante, dove i residui vengono
ulteriormente selezionati sempre a mano.
Raggiungiamo quindi a piedi un crinale nei pressi del pozzo
minerario con la maggiore produttività di pietre preziose di Mogok, la miniera
denominata Safari, la cui produzione sembra essere di circa 800 grammi (4000 carati)
al giorno. Più avanti lungo la strada incontriamo una famiglia composta da sei
persone, tra cui quattro bambini di meno di 14 anni. Con i volti macchiati di
fango e di terra grigia ritornano da una piccola miniera ricavata
artigianalmente ai margini della miniera principale. Dietro di loro, appaiono
dai boschi uno dopo l’altro decine e decine di altri minatori che cercano di
stare alla larga dalla strada evitando il nostro sguardo. “Alcuni soldati ci
permettono di lottare per accaparrarci qualche brandello nelle miniere abbandonate”,
dice Kywa, il padre che riporta i bambini a casa dalle miniere.
“Ma la notte vengono a perquisire
le nostre case e a intimidirci. Se abbiamo trovato qualche pietra più
grande non possiamo far altro che consegnarla. Quelle pietre appartengono al
governo. Nel villaggio vicino al nostro alcuni ragazzini un po’ più grandicelli e tutti i giovani sono stati
portati via con la forza.
Forse stanno lavorando nelle miniere più a valle. Ogni giorno
le loro madri si accampano fuori dalle caserme dell’esercito chiedendo la
restituzione dei loro figli”. E aggiunge: “non mi hanno mai messo in galera, ma
ho lavorato in una delle miniere più grandi, di proprietà di un consorzio
gestito dai militari, e le condizioni erano terribili. Lavori nell’acqua tutto
il giorno bagnando il minerale e alla fine la pelle diventa grigia e comincia a
staccarsi. L’acqua è sudicia e nella stagione delle piogge molti contraggono
polmoniti o altre malattie terribili. Venivo pagato meno di cinque dollari al
mese. Più a valle ci sono accampamenti
dell’esercito in cui i prigionieri, tra cui numerosi bambini, lavorano per
conto dei soldati nelle miniere più piccole – è per questo che hanno
bisogno dei più giovani. Di quanto viene estratto nulla finisce al mercato
nero, nulla.
In passato c’era un qualche fugace commercio qui. Ogni tanto
arrivavano alcuni turisti, ma ora la valle è chiusa. Non sappiamo che cosa
nascondano nella valle, ma è probabile che non si tratti soltanto di rubini.
Dalle miniere estraggono anche altri metalli, o così si dice”. Mentre
attraversiamo il villaggio le voci che alludono all’estrazione del’uranio si moltiplicano. Il Ministro dell’Energia
di Myanmar (Birmania) ha recentemente elencato cinque aree chiave del paese che
presentano potenzialità di estrazione dell’uranio: due delle aree identificate,
Kyaukphygon e Paongpyin, sono nella valle di Mogok.
Dalle nostre ricerche nella Valle di Mogok appare evidente che la
giunta militare controlla le remunerative attività minerarie grazie
all’intimidazione e al terrore, lasciando nella povertà la maggioranza del
popolo birmano, sempre di fronte alla minaccia della prigionia e del lavoro
forzato. Oggi la giunta vanta la proprietà diretta di numerose miniere, in
alcuni casi attraverso joint‑ventures con imprenditori privati, spesso parenti
di generali. Secondo le organizzazioni dei diritti umani i generali organizzano
la vendita privata delle pietre preziose migliori, trattenendo il ricavato
grazie alla corruzione.
Con il calare delle prime ombre a Yangon, migliaia di uomini
d’affari provenienti da Cina, Thailandia e Singapore si raccolgono per brindare
celebrando l’apertura di un’ulteriore asta di pietre preziose e giada bandita
dal governo presso il Centro Congressi di Myanmar. Qui migliaia di zaffiri,
diamanti, smeraldi, giade e altre pietre preziose risplendono in una lunga
successione di vetrine, mentre funzionari del governo si preparano a trattare
con gli acquirenti professionali riuniti nel Centro. È da qui che i rubini di
Mogok raggiungono il mondo.
Partecipiamo all’asta fingendoci potenziali acquirenti. Ci viene
richiesta una cauzione di € 2000
in contanti solo per entrare. Veniamo scambiati per
uomini d’affari russi e la nostra presenza, perlomeno nell’atrio principale,
non viene praticamente notata. Secondo i critici queste aste, che si tengono
fino a quattro volte all’anno per permettere alla giunta di raccogliere valuta
pregiata, mostrano non soltanto l’audacia della giunta militare birmana, ma
anche il fallimento delle sanzioni economiche occidentali.
“Oggi i principali partner commerciali della Birmania sono
Thailandia, Malesia e Singapore, insieme a India e Cina”, secondo Debbie
Stothard della Alternative Association of Southeast Asian Nations Network on
Burma, gruppo per i diritti umani. “Se questi paesi non si uniranno agli sforzi
degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, le sanzioni non serviranno a nulla”.
Il commercio internazionale in pietre preziose è dominato dalla Union Of Myanmar Economic Holdings Limited,
un consorzio di cui sono comproprietari il ministro della difesa e alcuni
ufficiali militari che detengono la maggioranza del capitale azionario. L’anno
scorso la
Myanmar Gems Enterprise, impresa statale del settore, ha
confermato tacitamente di avere venduto nel corso delle aste pietre preziose
per circa 400 milioni di sterline,
principalmente giada e rubini. Si tratta di una cifra che fa di questa impresa
la terza del paese per valore delle esportazioni.
Secondo l’organizzazione britannica Free Burma Campaign, il
ricavato della vendita di pietre preziose fluisce direttamente nei conti
correnti dei generali presso banche estere attraverso imprese come la Union Of Myanmar
Economic Holdings Limited, oppure attraverso società di proprietà dei
componenti delle famiglie della giunta. Il contante viene investito all’estero
in Gran Bretagna, Svizzera, Germania, Stati Uniti, Russia e Cina. “Gli
acquirenti provengono quasi tutti da Cina, Russia, paesi del Golfo, Thailandia
e India”, dice a Live un uomo
d’affari di Bangkok. “L’embargo americano non preoccupa nessuno. Guardatevi
attorno: il business è in pieno boom”.
Il sole ormai di una fioca luce color zafferano scende dietro i
pendii di Sagyin, a nord di Mandalay. All’esterno di una cava un segnale
avverte: “Sagyin – Zona Militare Sorvegliata”.
La ragione del ben visibile cordone militare è sotto i nostri
piedi. Nelle miniere e nelle gallerie a 30 metri sotto la
superficie si riesce a distinguere il chiarore degli occhi dei minatori appena
illuminati dalle candele. All’esterno decine di bambini raschiano fori e
fessurazioni ripiene di argilla nel calcare cristallino, le mani incallite e
sanguinanti. All’ingresso della cava alcune sentinelle verificano costantemente
l’eventuale arrivo di soldati. “Qui ci sono rubini”, ci dice Myint, che non avrà più di 12 anni. “Lavoriamo
uniti, è un lavoro illegale. Quando arrivano le pattuglie le sentinelle ci
avvertono e ci nascondiamo nel sottosuolo“.
A mano a mano che otteniamo sempre più informazioni dagli adulti
che controllano i bambini minatori,
comprendiamo come le centinaia di persone che lavorano in queste cave e in
altre più a nord non sono altro che i sopravvissuti dei tristemente noti campi
di lavoro della Birmania. Nell’ultimo decennio fino a un milione di persone in
Birmania sono state esiliate e spedite a lavorare nelle miniere gestite dai
militari, nelle cosiddette “zone satellite” e nei campi di lavoro per costruire
ponti, campi militari, impianti di irrigazione, oleodotti e gasdotti. Da sempre
impegnata a negare il problema dei campi di schiavitù, la giunta birmana ha
annunciato l’anno scorso un “patto storico” con l’ Organizzazione
Internazionale del Lavoro, in base al quale chiunque abbia trascorso un periodo
di prigionia nei campi nell’arco degli ultimi quarant’anni poteva richiedere un
risarcimento senza dover temere rappresaglie. Il terrore delle possibili
conseguenze ha avuto la meglio su chi avrebbe potuto accettare una tale
offerta. “Perché in Birmania abusi dei diritti umani come ad esempio
l’esistenza di campi di lavoro forzato continuano a verificarsi con frequenza crescente?”,
chiede David Mathieson di Human Rights Watch.
“Perché i generali sono diventati maestri nel trasformare i
ricavati delle miniere e dell’energia in un sistema caratterizzato dalla
corruzione. Dove finisce questo denaro? Certamente non a finanziare programmi
in materia di sanità o di istruzione; il denaro finisce nelle mani dei militari
per creare migliori centri di comando militare nelle montagne e reprimere la
popolazione”. “L’anno scorso abbiamo costruito un campo per l’esercito”, dice
uno degli adulti che abbiamo intervistato a Sagyin. “Ci hanno radunati dalle
miniere e ci hanno semplicemente informati che da quel momento avremmo lavorato
per i militari. Siamo anche stati obbligati a costruire caserme e stazioni di
polizia, il tutto per un pasto al giorno. Ora siamo qui nelle gallerie delle
miniere più vecchie cercando di guadagnarci da vivere, tentando di ricostruire
le nostre vite.
Non c’è nessuno di noi che non sogni di trovare un rubino grande
quanto il nostro pugno e di riuscire a fuggire oltre il confine con la
Thailandia. È questo che ci fa andare avanti. Se ci prendono qui ci spediscono
in un altro campo, se addirittura non ci ammazzano, ma cos’altro potremmo
fare?”.
(22 Settembre 2010)