11/7/2010
Elezioni Birmane - Articolo di Cecilia Brighi
Birmania stato Karenno. Dopo quattro giorni di intenso
lavoro i parlamentari eletti nel 1990, insieme ai rappresentanti delle
organizzazioni etniche degli stati Karen, Karenni e Mon, alcuni dei quali
leader delle federazioni sindacali etniche, hanno approvato la formazione del
Parlamento del Popolo per l’Unione Federale birmana. Una decisione storica lanciata in concomitanza con le elezioni farsa birmane.
Un Parlamento che lancia la sfida per porre fine alla tirannia della dittatura
militare, sostenere la coesistenza pacifica di tutte le nazionalità etniche
birmane attraverso un sistema di governo federale, promuovere il rispetto dei
diritti umani e delle libertà fondamentali, formare un governo democratico ad
interim che rappresenti tutto il popolo birmano per la costituzione di una
Unione Federale della Birmania.
Grazie ad un intenso
lavoro preparatorio e a straordinarie misure di sicurezza, la riunione di
coordinamento per la formazione del Parlamento del popolo dopo i due giorni di
lavoro si è finalmente riunito per la prima volta dopo 20 anni, all’interno
della Birmania, il Parlamento. La prima sessione si è potuta tenere in grande segretezza sulle
montagne dello Stato Karenno. Per superare i controlli e per tenere riservato
l’appuntamento sino al termine dei lavori, si raggiunto il luogo di riunione,
attraverso un lungo e impervio cammino di sette ore nella fitta giungla delle montagne birmane.
La perfetta
organizzazione ha fatto sì che, nonostante la forte precarietà delle
infrastrutture, l’improvviso ed inaspettato freddo pungente, soprattutto al
calar del sole, i lavori potessero svolgersi fluidamente, superando ogni tipo di ostacoli.
La collocazione dell’incontro nonostante le attrezzature satellitari per il
collegamento Skype portate sul luogo, aveva anche reso difficilissimo il
contatto con l’esterno. Solo il ricorso ad un ingegnoso incredibile sistema di
comunicazione, funzionante solo per i
telefoni da due soldi thailandesi, precariamente legati con un elastico a delle
altissime canne di bambù, ha permesso il contatto, spesso nel corso della
notte, con i numerosi parlamentari in India, Australia e persino in Birmania,
per riferire e chiedere il sostegno agli elementi salienti della bozza di Carta
del Parlamento.
I lavori si sono
svolti anche con sessioni notturne, momenti informali di dibattito incentrati soprattutto
sul rapporto tra parlamento e governo in esilio, sulla necessaria inclusione
delle altre nazionalità etniche, sulla definizione di procedure decisionali
condivise, sulle strutture parlamentari, tra cui le Commissioni, che per le
difficoltà di lavoro dovranno essere leggere, ma efficaci, sulla approvazione
delle prime leggi.
Sono
state istituite otto Commissioni parlamentari tra cui quella i diritti umani e
delle donne, i diritti del lavoro, l’ambiente, l’economia, la difesa, la
trasparenza dell’azione di governo ed è
stata adottata la Carta del Parlamento come pure i principi guida per la
approvazione di alcuni atti prioritari
tra cui quello contro la costituzione del 2008 e le elezioni, contro lo
sviluppo del nucleare civile e militare, per la promozione dei diritti umani, per il rispetto dei diritti lavoratori,
la ratifica di tutte le Convenzioni fondamentali dell’ILO e la eliminazione immediata del lavoro forzato, per la condanna
dei crimini di guerra e contro l’umanità. Si è discusso di trasparenza delle azioni di governo, di
sviluppo sostenibile di rispetto delle norme internazionali sulle
multinazionali.
Insomma una data storica per il movimento democratico
birmano che a tutt’oggi non è sufficientemente sostenuto politicamente, e che
per promuovere il cambiamento ha bisogno dell’aiuto concreto, anche finanziario,
dei governi e delle istituzioni internazionali.
L’opposizione democratica e sindacale birmana ha denunciato da subito
l’inutilità di queste elezioni farsa, che
mirano solo a dare una facciata civile alla giunta militare. La Costituzione, le
leggi elettorali e le strategie repressive messe in atto dalla giunta per
costringere a votare i propri partiti, dimostrano ancora una volta che la scelta di molti governi, compresa la UE di
stare alla finestra e magari di sostenere quei pochi partiti che comunque hanno
provato a candidarsi è errata.
La leader birmana Aung San Suu kyi ha dichiarato chiaramente che il
popolo birmano ha diritto a non votare. Le organizzazioni sindacali birmane e
le organizzazioni democratiche chiedevano la attuazione di tre condizioni: la
liberazione di tutti i prigionieri politici, l’avvio di un dialogo inclusivo
per la democrazia con la conseguente revisione
della costituzione illegittima del 2008,
la fine delle violazioni dei diritti umani e della repressione delle
nazionalità etniche. Nessuna di queste
condizioni, anche quelle minime è stata rispettata. Ad oltre 1.5 milioni di
cittadini degli stati etnici è stato impedito di votare, i lavoratori degli
uffici pubblici e in molte fabbriche, sono
stati obbligati a votare in anticipo per i partiti della giunta, sotto il ricatto del licenziamento.
Ora i governi, che hanno voluto fare come San Tommaso, e che sono stati silenziosi per non “ostacolare
il possibile dialogo” e non irrigidire la posizione della Cina, dovranno ricredersi. Chiedevano elezioni libere, eque e
trasparenti e purtroppo per i birmani non ci potevano essere. Nonostante che 12
paesi tra cui 10 europei avevano appoggiato le richieste presenti nella
risoluzione del Rappresentante ONU per i diritti umani Quintana che chiedeva la
formazione di una commissione di indagine ONU sui crimini di guerra e contro l’umanità,
l’Unione Europea ha scelto di mettere il silenziatore alla bozza di risoluzione
dell’Assemblea generale ONU.
Questa bozza di risoluzione ONU ha denunciato con forza la violazione
profonda di tutti i diritti umani, compreso il lavoro forzato, ma invece di raccogliere la richiesta del
rappresentante speciale ONU sulla costituzione della commissione di
inchiesta sui crimini di guerra contro l’umanità, chiede allo
governo birmano stesso di indagare su tali crimini e di portare alla sbarra i
responsabili. Come chiedere alla volpe nel pollaio di non mangiare i polli.
Le istituzioni internazionali e la UE ora dovrebbero voltare pagina. Sconfitti nella
loro posizione di mediazione dovrebbero rafforzare l’azione politica,
diplomatica e le sanzioni. Dovrebbero lavorare per istituire la commissione
contro i crimini di guerra e contro l’umanità, e per il bando del commercio
delle armi con la Birmania. Inoltre in questi giorni comincia il lavoro del
Consiglio di Amministrazione ILO. I dati raccolti al confine mostrano che il
lavoro forzato non si interrotto, anzi
continua e si teme che vi sarà una sua esplosione soprattutto lungo la
costruzione del tracciato di oltre 1.100 km del nuovo gasdotto tra la Birmania e
la Cina. Oltre 13000 soldati sono stati dislocati lungo questo tracciato e
l’esperienza nella costruzione di un precedente gasdotto e di alcune grandi
dighe dimostra che dove vi sono militari c’è una forte presenza di lavoro
forzato, confisca delle terre, deportazione forzata di interi villaggi, uccisioni
e stupri. Bisognerà quindi non abbassare
la guardia, anzi alzare le richieste internazionali.
Soprattutto bisognerà non riconoscere i risultati elettorali e sostenere
attivamente l’opposizione democratica e sindacale birmana che, pur senza
risorse tenta da anni di portare pacificamente il paese alla democrazia. Il
dopo elezioni sarà durissimo. Innanzitutto, così come sostenuto anche dall’ITUC
bisognerà appoggiare attivamente il lavoro clandestino del sindacato birmano e
delle federazioni sindacali etniche
affiliate. Nei mesi scorsi si è riusciti a effettuare numerosi scioperi di
massa che hanno prodotto risultati sul terreno salariale e delle condizioni di
lavoro. Si deve continuare. Una proposta possibile è l’adozione di alcuni
sindacalisti, l’avvio di piccoli progetti di sostegno in agricoltura, che vede
occupati il 70% dei lavoratori, nelle imprese che producono per l’esportazione.
E poi si dovrà rafforzare la verifica sulla presenza delle imprese straniere,
tra cui quelle italiane in Birmania, in violazione delle decisioni europee.
Insomma purtroppo ancora una volta gli interessi geopolitici, il peso economico
cinese, hanno indebolito la pressione internazionale che farà pagare alla
Birmania un prezzo altissimo in termini di aumento del lavoro forzato, delle
tensioni con le nazionalità etniche, di
spoliazione delle risorse economiche, sociali ed ambientali del paese.
Cecilia Brighi
(7 Novembre 2010)