Aung San Suu Kyi: tratti principali
Storia delle scelte di fondo della vita della leader birmana AUNG SAN SUU KYI
AUNG SAN SUU KYI: LA SIGNORA DI UNIVERSITY AVENUE.
di Cecilia Brighi

Credo sinceramente che tutti i popoli e le religioni possano coesistere in pace, che qualsiasi sia la nostra origine o la nostra religione, possiamo tutti imparare a concordare su alcuni valori fondamentali essenziali per lo sviluppo della società umana [1]

Prigioniera nella propria casa

Gennaio 2006. Nella grande casa di University Avenue, considerata da molti come la Casa Bianca o il Cremlino birmano, stava scendendo la notte, mentre la Reuter lanciava la notizia, che la giunta militare birmana aveva esteso per altri dodici mesi gli arresti domiciliari al Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Ky. Arresti domiciliari strettissimi, senza eccezioni. In tutto ormai erano 10 gli anni di prigionia, seppur non in carcere ma nella sua casa.

Altri dodici mesi completamente isolata dal mondo e soprattutto dalla sua gente. Una reclusione rigorosa, senza alcuna concessione al fatto che, nonostante tutto lei è, e rimane la figlia del padre della patria. La figlia dell’uomo che aveva osato opporsi agli inglesi e che aveva ottenuto l’indipendenza del paese dal dominio inglese. La figlia dell’uomo venerato da tutti i birmani.

Solo due persone, controllate e perquisite sia in entrata che in uscita dalla vecchia casa, potevano continuare a vederla. Una volta a settimana il suo medico personale e la signora delle pulizie, che poteva entrare in questa prigione senza sbarre, per sistemare le ormai pochissime cose rimaste in quella grande casa e portare il cibo.

La casa di suo padre e di sua madre, circondata da sbarramenti e filo spinato, controllata giorno e notte da agenti dei servizi, ripiombò di nuovo nel suo impalpabile silenzio.

Un silenzio avvolgente, lungo anni e protetto dal grande giardino, pieno di gigli fioriti, di frangipane e di gelsomini profumati, il fiore preferito di Suu Kyi, che non mancava mai di appuntarsi sui capelli o dietro l’orecchio.

Un giardino silenzioso affacciato sul lago piatto, che, almeno per un lato fa sembrare la casa libera dai controlli costanti dei militari. Una sensazione di quasi libertà, in una casa ormai quasi del tutto vuota. I mobili di famiglia, che rappresentavano i giorni dei giochi, degli affetti, della tranquillità, i ricordi, erano stai venduti nel corso degli anni di reclusione, per pagare le spese della sopravvivenza. Lei non aveva mai accettato nulla, neanche il cibo dai militari. Anche il vecchio piano, che lei amava suonare nei lungi pomeriggi pieni di silenzio, si era arreso. Si era rotto e non aveva potuto farlo riparare. In genere lei si alzava prima dell’alba, quando l’aria è ancora soffice e fresca e anche il prato intorno alla casa era ancora bagnato dalla rugiada notturna.

Suu Kyi amava molto alzarsi a quell’ora e non smetteva di commuoversi all’idea che il mondo in quei momenti fosse fragile, docile, in attesa di essere svegliato dalla luce del nuovo giorno, che lentamente saliva da dietro l’ orizzonte [2].

In genere quella era anche l’ora in cui nell’ autunno del 1988, prima di essere messa agli arresti domiciliari[3], usciva di casa e partiva per raggiungere al mattino presto le città, dove era solita tenere comizi o riunioni.

Amava alzarsi prima del giorno, quando tutto e tutti dormivano, perché questo era il tempo giusto per la meditazione. Un ora senza tempo di concentrazione su se stessa, sull’universo e sul nulla. Poi, con un programma rigoroso,che si era data nei lunghi anni di isolamento, ascoltava alla radio le notizie della BBC, Voice of America e le notizie della BBC in birmano. Quando ci riusciva ed era fortunata ascoltava anche Democratic Voice of Burma, ma purtroppo le interferenze erano molte e non sempre riusciva a sentire tutte le notizie sulle attività della dissidenza birmana nel mondo. La radio, unico grande e costante collegamento con il mondo. È vero che in alcuni periodi le erano state concesse delle visite di diplomatici o di giornalisti, ma ormai questo era solo un ricordo. Ora era obbligata a stare sola con se stessa, con i suoi libri, con la sua quotidianità e soprattutto con i suoi pensieri.

Finalmente faceva un bagno e poi una colazione. Il resto del giorno era scandito dalle letture, dallo studio, dalle passeggiate intorno alla casa o dall’ascolto o dal suonare un po’ di musica. Certo quando c’era il piano era un piacere immenso volare via con la mente e lasciare che le dita delle mani si rincorressero veloci sulla tastiera.

Ora le era rimasta solo una chitarra, che il figlio più piccolo le aveva regalato e che le aveva insegnato a suonare, non certo bene come il piano. Ciò nonostante la casa si riempiva di quella musica, quella casa ormai vuota. In fondo, lei si era andata convincendo che i mobili non servono a molto, soprattutto a chi conduce una esistenza semplice, essenziale, tutta concentrata sull’ esercizio della mente e del corpo, per coltivare la forza dello spirito ed il coraggio. La vera ricchezza di una donna. Così, le sarebbe toccato un altro lungo anno senza poter fare nulla per il suo paese se non esistere e resistere, come simbolo di una opposizione coraggiosa e diffusa e spesso sconosciuta al mondo.

Lei, consapevole del significato di questa terribile novità, era scesa in giardino a guardare, come spesso faceva, la luce del giorno che si andava via via sfumando.

Il cielo perdeva la sua forza e lentamente cominciava a confondersi con i colori del lago, alleggerendosi con il passare dei minuti. Prima color cipria e poi sempre più rosa, rosso, viola, grigio. Le ombre degli alberi cominciavano ad allungarsi verso il lago e verso una notte, che sarebbe stata rischiarata dalla luna. Sembrava che anche i tronchi stessero cercando la libertà e stessero cercando di tuffarsi nel grande lago, liberi. Ombre tranquille, scure e silenziose, non nemiche.

Tenere testa a una dittatura senza odio e con determinazione e dolcezza

Fuori dal cancello i militari sonnecchiavano, a guardia della casa, circondata da garritte e da filo spinato che ormai la giunta produceva in tal quantità tanto da esportarlo. I suoi carcerieri erano tranquilli, tanto sapevano che nulla sarebbe cambiato né dentro, né fuori.

Nonostante tutte le difficoltà e i lunghi anni di reclusione lei, “la Signora”, così viene chiamata da tutti, era rimasta la stessa. Una grande determinazione, ma nessun odio nei confronti dei suoi aguzzini.

Disse una volta ad un giornalista.

Non ho mai imparato ad odiarli. Se lo avessi fatto sarei stata veramente in loro balia. Ho sempre sentito che se avessi veramente cominciato ad odiare i miei carcerieri, ad odiare lo SLORC[4] e l’esercito, avrei sconfitto me stessa. Ciò mi fa venire in mente un altro intervistatore, che non credeva che tutti quegli anni agli arresti domiciliari non mi avessero impaurito. Pensava, allora che dovevo essere pietrificata. L’ho trovato un atteggiamento strano. Perché avrei dovuto essere impaurita? Se fossi stata cosi impaurita, avrei fatto i bagagli e sarei partita, perché loro, mi avrebbero sempre dato la possibilità di andarmene. Non sono così sicura che un buddista mi avrebbe posto questa domanda. I buddisti, in generale, sanno che l’isolamento non è qualcosa di cui aver paura. La gente mi chiede perché non avevo paura di loro. Era perché non sapevo che loro potevano farmi tutto quello che volevano? Certo che lo sapevo! Io credo che fosse perché non li odiavo e una persona non può essere veramente spaventata da coloro che non odia. L’odio e la paura vanno a braccetto”[5]

E questa sua determinazione, questa sua immensa e ferma tranquillità che forse, al contrario rendeva sempre più irritati i generali.

Purtroppo questa dura decisione della giunta non fu sufficientemente amplificata dai giornali internazionali. Le vicende medio orientali, la guerra in Iraq facevano sicuramente più notizia che non il fatto che una donna, sola, senza armi, continuasse a tenere testa ad una intera dittatura.

Sessanta anni appena compiuti, piccola. Si muove come un gatto, dolcemente ed in modo elegante nella sua casa. La donna che sfida il regime militare più repressivo al mondo, resa ancora più minuta dalla durezza degli arresti, dalla scarsità di risorse, dalla poca salute, e dalla dieta obbligata dalle ristrettezze finanziarie, ha mantenuto intatti i suoi talenti: determinazione e dolcezza.

Era nata alla fine della guerra, il 19 giugno del 45, una guerra che per i birmani, però ancora non era finita.

L’indipendenza dall’impero inglese venne raggiunta grazie alla determinazione del suo giovanissimo padre: Aung San, l’ architetto della indipendenza. Egli aveva sposato Daw Khin Kyi, una giovane insegnante ed infermiera, da cui aveva avuto due figli maschi.

Ma entrambi i genitori, avrebbero voluto anche una bambina e quando finalmente nacque, Aung San provò una grandissima emozione. Lei era minuta e bellissima, il visino di porcellana, spuntava allegro dal letto di coltri bianche e leggere su cui era adagiata, protetta da una altrettanto candida zanzariera. Volle metterle il nome di Suu, che in birmano vuol dire, “regalo” . Aung San Suu Kyi significava pertanto, regalo di Aung San a sua moglie Kyi.

Aung San, il negoziatore dell’indipendenza, a soli 32 anni, aveva costituito l’esercito birmano e nell’aprile del 47, vinto le elezioni ottenendo un successo strepitoso per il suo partito, la Lega Antifascista per la Libertà del Popolo[6] conquistando 248 dei 255 seggi dell’Assemblea Nazionale e stava portando il paese verso l’indipendenza e la democrazia. Mancavano solo pochi mesi dal passaggio di consegne, che avrebbero sancito definitivamente la totale autonomia dalla Gran Bretagna e dal Commonwealth, quando il sogno collettivo venne interrotto bruscamente e violentemente il 19 luglio di quell’anno. Nel corso di una riunione di gabinetto, il padre della patria venne infatti assassinato in un attentato, insieme ai suoi compagni di governo.

Anni difficili ed esilio

Cominciarono gli anni difficili per Suu Kyi e per la Birmania. Tredici anni dopo, la madre di Suu Kyi venne nominata Ambasciatrice in India. La lunga lontananza dalla Birmania aveva permesso alla famiglia, sebbene solo in parte, di non assistere alla veloce involuzione del suo paese. Una giovane democrazia, divisa dalle lotte interne tra etnie e fazioni politiche che divenne facile preda dei militari, della miseria, della repressione e della emarginazione internazionale.

Il 2 marzo del 1962 il generale Ne Win, noto per la sua violenza e le sue fissazioni astrologiche aveva preso il potere arrestando l’allora presidente del consiglio del governo democratico e tutti i suoi ministri e insediando al loro posto il Consiglio Rivoluzionario. Nacque il manifesto ideologico su cui si fondava la nuova dittatura: La via Birmana al Socialismo. Venne anche costituito il Partito Per il Programma Socialista Birmano (BPSPP) e senza perdere tempo, i militari, presero di mira il movimento degli studenti, assaltarono e facendo saltare in aria la loro storica sede all’Università di Rangoon e lasciarono in terra decine e decine di morti. Sarebbero stati i primi di una lunghissima lista di morti, lista che non si è mai interrotta nel corso degli anni.

Suu Kyi, si spostò ad Oxford, dove continuò a studiare filosofia, politica ed economia.

I giovani di mezzo mondo cominciavano a scendere in piazza contro la guerra nel Vietnam, contro il bigottismo, la morale tradizionale e il 1968 alle porte, avrebbe rivoluzionato il modo di vivere e di pensare di una intera generazione. Suu Kyi, guardava con attenzione a questi grandi cambiamenti e piena di apprensione ascoltava le notizie dal suo paese, con la certezza che sarebbe venuto il tempo nel quale avrebbe dovuto recuperare l’eredità politica del padre.

La sua passione per la storia asiatica fu l’occasione per incontrare l’uomo che avrebbe sposato e con cui avrebbe diviso molti anni della sua vita, molte passioni e anche straordinari dolori. Michael Aris studioso di Tibet non poteva non condividere, con Suu Kyi, la passione e gli studi sull’Asia.

Sebbene gli studi, il lavoro e l’amore l’avessero portata lontano dal suo paese, Suu Kyi era convinta però, nel profondo del cuore, che il destino l’avrebbe riportata tra la sua gente. Una evenienza che, probabilmente, cercava di negare anche a se stessa, ma che aleggiava nella sua quotidianità. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto tornare a Rangoon, tanto che prima del matrimonio aveva scritto al futuro marito un appello molto premonitore:

Ti chiedo solo una cosa. Se il mio popolo avesse bisogno di me, tu mi dovrai aiutare a fare il mio dovere. Quanto questo sia probabile non lo so, ma questa possibilità esiste.

Suu Kyi non avrebbe mai rinunciato all’eredità politica di suo padre. Lei aspettava solo il momento. E gli anni passavano con questo non detto. Ogni anno Suu Kyi tornava in Birmania a far visita alla sua anziana madre. A volte portava con se anche i suoi due figli, a cui, per ribadire la sua doppia appartenenza, avevano dato un doppio nome: uno birmano e uno inglese. I sogni di suo padre, che ipotizzava una grande e solida democrazia, uno stato federale e multietnico si erano infranti contro la violenta repressione della dittatura. Un paese impoverito ed impaurito. Un paese in carcere. Una repressione violenta e costante. Suu Kyi guardava al suo paese con grande tristezza, fino a quando, come aveva profetizzato e scritto al suo amore prima di sposarsi, il destino si realizzò .

Una protesta nonviolenta, dopo ventisei anni di repressione

Era il 1988. l’anno drammatico della sanguinosa repressione militare che fece migliaia di vittime innocenti. Sua madre aveva avuto un infarto e la sua vita era appesa ad un filo. Suu Kyi tornò subito a Rangoon. La grande casa era piena di tristezza. Tutti sapevano che la anziana signora li avrebbe lasciati tra breve. Molti parenti e amici continuavano a venire in visita, a chiedere notizie e a salutare il ritorno sfortunato di Suu Kyi. Molte di queste visite avevano anche un secondo scopo. Tastare il terreno, parlare sommessamente dei terribili avvenimenti che stavano funestando il paese intero. Un paese che aveva bisogno di una scossa e soprattutto di un leader, giovane ed in grado di parlare al cuore dei birmani, per ridargli speranza.

Il giorno più duro era stato l’8 agosto 1988, giorno nel quale alle ore 8 e 8 minuti, i lavoratori del porto di Rangoon invasero le strade della città. La protesta si divampò immediatamente. Una data scelta soprattutto dal movimento degli studenti per il suo significato divinatorio:8.8.88.

In Birmania infatti, la superstizione, la numerologia e l’astrologia hanno sempre giocato un ruolo importantissimo, tanto che il sanguinario generale Ne Win, il cui nome significava “Brillante come il sole”, essendo profondamente superstizioso, aveva scelto come numero fortunato il 9 e potendo regnare indisturbato, aveva fatto stampare nuove monete con la combinazione di numeri la cui somma dava nove. Banconote quindi da 45 Kyats o da 90 kyats. Aveva anche deciso di effettuare il colpo di stato il 18 settembre, nono mese dell’anno.

Ventisei anni di totale isolamento dal resto del mondo, nel tentativo di costruire la via birmana al socialismo, avevano portato il paese al collasso. Una ricetta la sua intrisa di violenza, nazionalismo, orrore, numerologia e astrologia.

Fino a quando le manifestazioni esplosero contemporaneamente quella fatidica mattina di agosto, in tutto il paese. A Rangoon studenti, lavoratori e monaci buddisti con le ciotole per il riso rivolte verso il basso in segno di protesta, avevano riempito le strade del centro.

Un fiume umano scorreva deciso e invadeva la città. La repressione calò all’improvviso come una mannaia sui dimostranti. Dai camion dell’esercito sbucarono le mitragliatrici. I giovani con grande coraggio si schierarono davanti a queste a dorso nudo.

In pochi minuti centinaia furono i morti per le strade. I militari continuavano a sparare all’impazzata contro i dimostranti, che innalzavano i cartelli con le foto del padre della patria, Aung San. La carneficina si interruppe solo all’alba del giorno dopo. Le manifestazioni continuarono in tutto il paese. Tutti indifferentemente scendevano in piazza. Medici, infermiere, avvocati con indosso le loro toghe, lavoratori, attori, scrittori, casalinghe, monaci buddisti, poliziotti, travestiti, cechi. L’intero paese si stava rivoltando e organizzando contro l’odiosa dittatura. Suu Kyi non poteva rimanere indifferente a tanto. Sapeva di dover rispondere a questa orgia di violenza che aveva prodotto in pochissimi giorni migliaia di morti.

Moltissime erano state le pressioni nei suoi confronti. C’era bisogno di un leader, che guidasse le masse in rivolta, che desse fiducia ed evitasse che il sacrificio dei ragazzi uccisi e degli arrestati fosse stato vano. Bisognava incanalare la rivolta. Dare un futuro al movimento. Doveva prendere posizione. Doveva schierarsi e prendere le redini di questo movimento.

Lei non ci mise neanche un minuto a decidersi. Si preparò e il 26 agosto fece il grande passo che avrebbe cambiato definitivamente la sua vita e quella della sua famiglia. Venne organizzata una grande manifestazione presso la Pagoda di Shwe Dagon. Suu Kyi decise che sarebbe intervenuta.

Era venuto il grande momento. Una diffusa eccitazione si palpava tra la folla, che era li dalla sera prima. Sapevano che la figlia del loro eroe sarebbe arrivata. L’attesa era enorme. Finalmente un piccolo corteo di macchine si fermò lungo il bordo della strada.

Lei uscì dall’auto, si fece lentamente largo tra la folla, L’attesa era stata lunga anni e ciascuno voleva vedere la figlia dell’amato leader e soprattutto voleva ascoltare da lei parole rassicuranti sul futuro della lotta e sul suo impegno.

Un giuramento di fedeltà al popolo birmano

Suu Kyi salì sul palco ed inizio a parlare. La sua voce era chiara e ferma. Leggeva scandendo le parole come se dovessero essere capite da tutti una per una. Leggeva e faceva lunghe pause. Fu l’unico discorso scritto, sino ai suoi arresti l’anno successivo. La sua prima preoccupazione fu quella di dimostrare al mondo che il vasto movimento di popolo non era un movimento violento, ma al contrario. Poi dopo averci pensato molto affrontò due dubbi che spesso aleggiavano tra la gente. Sarebbe stata in grado di affrontare la complessità dei problemi politici del paese, essendo vissuta per moltissimi anni all’estero e per giunta, avendo sposato uno straniero?

Il suo fu un discorso semplice e chiaro. Un giuramento di fedeltà al popolo birmano. Un giuramento che anteponeva il suo popolo e il suo paese agli affetti personali, alla sua stessa vita. Giustificò la sua lunga lontananza dalla politica birmana, come segno di rispetto per suo padre, che una volta ottenuta l’indipendenza non avrebbe voluto prendere parte alla politica di potere che ne sarebbe seguita. Ora lei non avrebbe potuto rimanere indifferente a tutto quello che stava succedendo e paragonò la crisi nazionale ad una seconda lotta per l’indipendenza e per un sistema di governo democratico e parlamentare. A sostegno di queste affermazioni lesse una dichiarazione del padre:

“dobbiamo fare della democrazia il credo popolare. Dobbiamo cercare di costruire una Birmania libera secondo tale credo. Se dovessimo fallire in questo, il nostro popolo sarà costretto a soffrire. Se la democrazia dovesse fallire, il mondo non potrà tirarsi indietro e stare a guardare, e per ciò; la Birmania sarà un giorno , come il Giappone e la Germania.. La democrazia è l’unica ideologia che è coerente con la libertà è anche una ideologia che promuove e rafforza la pace. Ed è perciò l’unica ideologia a cui dovremmo ambire ” .

La folla ascoltava attenta e, più Aung San Suu Kyi parlava, più si percepiva che, come per miracolo, si stava consolidando uno straordinario legame di fiducia e di affidamento tra lei ed il suo popolo.

Poi affrontò lo spinosissimo problema del rapporto con l’esercito. Quell’esercito che solo pochi giorni prima, aveva perpetrato una vera e propria carneficina e che da anni schiacciava con un pugno di ferro qualsiasi tentativo di dissenso. Un esercito creato dal padre, ma con tutt’altri obiettivi:

le forze armate devono essere al servizio di questa nazione e questo popolo, e dovrebbero essere una forza, tale da ricevere gli onori e il rispetto del popolo. Se invece l’esercito dovesse essere odiato dal popolo, allora le aspettative, in base alle quali questo esercito è stato costituito, sarebbero state vane.

Suu Kyi con queste parole cercava di evitare che l’odio verso l’esercito venisse fomentato ulteriormente. Sapeva che l’unica via di uscita possibile per il paese era rappresentata da una lotta pacifica e senza odio per gli aguzzini che tenevano prigioniero il popolo intero.

Un appello alla pacificazione, al dialogo e all’unità del popolo. Una unità ed una forza controllata dalla disciplina e dalla volontà di raggiungere gli obiettivi di democrazia e di unità tra le diverse etnie birmane. Lei si appellava alla maggioranza di etnia birmana perchè si impegnasse costruire l’ unità e l’ amicizia tra i gruppi nazionali e razziali . Un appello importantissimo, che chiedeva la tolleranza anche nei confronti delle forze politiche di regime, che non avrebbero dovuto essere molestate in alcun modo. Da ultimo Suu Kyi lanciò la grande sfida alla giunta militare chiedendo che fossero convocate al più presto libere elezioni per la costruzione di un governo democratico multipartitico.

Fu il discorso che cambiò definitivamente la sua esistenza. Era stata definitivamente accettata come leader del suo popolo e aveva lanciato una sfida pacifica, ma ferma, ai militari e a tutto il regime. Una sfida pagata pesantemente.

Per dare una prospettiva e una organizzazione ad una lotta, che rischiava di degenerare e di implodere, venne decisa la fondazione di un partito: la Lega Nazionale per la Democrazia.

Aung San Suu Kyi ne divenne segretaria generale. Un lavoro intenso che doveva per di più contrastare un colpo di stato improvviso, che aveva rafforzato il ruolo dei militari, che, per ingannare il mondo, avevano anche libere elezioni da tenersi il 27 maggio del 1990. Le mitragliatrici però non smettevano di seminare la morte tra i dimostranti.

Suu Kyi iniziò a viaggiare per il paese e a tenere comizi, sempre affollatissimi e a organizzare il partito.

Le costò caro. A luglio del 1989, i militari per tagliare le ali alla testa del movimento, misero Suu Kyi agli arresti domiciliari. Suu Kyi sapeva che sarebbe stata arrestata. Preparò le sue cose e si sedette a parlare con i suoi due figli, che erano venuti a trovarla a Rangoon. Dovevano ritornare in Gran Bretagna immediatamente:

Come madre, il più grande sacrificio era quello di lasciare i miei figli, ma ero stata sempre conscia del fatto che altri avevano sacrificato molto più di quanto stessi facendo io. Ovviamente non è una scelta che avevo fatto allegramente, ma comunque una scelta che feci senza alcuna riserva od esitazione. Ma avrei voluto non aver perso tutti quegli anni della vita dei miei figli. Avrei preferito piuttosto averla vissuta insieme[7]

Suu Kyi sentiva profondamente che nonostante la grande sofferenza nel veder andar via i propri figli lei viveva una condizione estremamente privilegiata.

nel corso degli anni dei miei arresti domiciliari, la mia famiglia viveva in una società libera ed io ero sicura che loro erano economicamente protetti e al sicuro dia qualsiasi forma di persecuzione, la maggior parte dei miei colleghi che erano stati imprigionati non venivano confortati da assicurazioni dello stesso tipo. Sapevano bene che le loro famiglie erano in una posizione estremamente vulnerabile, in pericolo costante di interrogatori, di perquisizioni, di minacce generalizzate e di interferenze con i loro mezzi di sostentamento. Per quei prigionieri con dei figli era particolarmente difficile[8]

Non venne accusata di nulla. Secondo la legge marziale, chiunque poteva essere messo agli arresti domiciliari sino a tre anni, senza alcuna accusa formale. Cercavano di impedire che le annunciate elezioni potessero diventare un boomerang per il potere. Suu Kyi per evitare che l’arresto potesse essere utilizzato per proibire al suo partito di candidarsi alle elezioni, rinunciò alla carica di segretaria generale. Le continue carneficine, gli accordi con il governo tailandese per il rimpatrio forzato degli studenti e dei dissidenti che erano scappati in Tailandia, i bombardamenti delle zone controllate dal gruppo etnico dei Kareni ed ora gli arresti della giovane leader birmana avevano fatto schizzare verso l’alto i consensi nei confronti dell’NLD e fatto diventare Suu Kyi una eroina.

Nobel per la Pace e ancora reclusa

Arrivarono finalmente le elezioni e la democrazia sbaragliò completamente i militari. Il partito di Suu Kyi stravinse, conquistando 392 seggi su 485, ma il potere non venne mai trasferito nelle mani del nuovo parlamento democraticamente eletto. Ogni giorno vi era una nuova decisione, che puntava a evitare di cedere il potere. Suu Kyi rimaneva chiusa nella sua grande casa, mentre continuava il braccio di ferro tra la giunta e il popolo. Centinaia furono gli arresti. Buona parte dei parlamentari eletti finì in carcere, mentre un altro gruppo scelse l’esilio.

Suu Kyi viveva nella impossibilità di sostenere attivamente il suo popolo e sapeva che questa condizione non sarebbe durata poco. Neanche un anno dopo le elezioni, la giunta decise di estendere gli arresti domiciliari fino a cinque anni. Il mondo politico internazionale si mobilitò con grandi dichiarazioni, ma pochi furono i gesti concreti a sostegno di questa lotta tra Davide e Golia.

Il Parlamento Europeo le conferì il Premio Sakharof, per i diritti umani e poi nello stesso anno arrivò il Premio Nobel Per la Pace.

Suu Kyi lavorava molto nonostante il totale isolamento. I suoi punti di riferimento rimanevano Gandhi, Nelson Mandela e Vaclav Havel, che per altro l’aveva candidata al Nobel.

la pace, la stabilità e l’unità non possono essere importati o imposti: hanno bisogno di essere nutriti attraverso la promozione della sensibilità verso i bisogni delle persone ed il rispetto per i diritti e le opinioni degli altri.[9]

e il buddismo. Il suo pensiero nonostante tutto rimaneva orientato verso la necessità di una politica di riconciliazione nazionale, verso il difficile e quasi impossibile dialogo con i militari.

ho letto da qualche parte che è sempre più difficile per il perpetratore di un atto crudele di perdonare la vittima, che per la vittima di perdonare il suo torturatore. Quando ho letto ciò l’ho trovato molto strano, ma credo che sia vero. La vittima può perdonare poiché ha una forte base morale per farlo.

Nel 1994 la giunta estese i suoi arresti per altri cinque anni. Pur autorizzandola ad incontrare alcuni diplomatici stranieri. Suu Kyi potè così iniziare a lanciare la sua strategia in direzione di un negoziato, equo e tripartito con la giunta e le rappresentanze delle nazionalità etniche. E i risultati non tardarono ad arrivare. Cominciarono gli incontri segreti tra i generali e la Signora, e poi venne la sua liberazione.

Il giorno dopo il suo rilascio Suu Kyi lanciò formalmente la richiesta di un negoziato con la giunta e di riforme politiche da stabilire di comune accordo. Chiese però contemporaneamente e con chiarezza agli investitori stranieri, alle istituzioni internazionali e ai governi di non investire nel suo paese sino a quando non fosse raggiunta una democrazia stabile. Il tempo aveva fatto affinare anche la sua strategia e l’aveva convinta che l’opposizione pacifica doveva essere accompagnata da un forte sostegno internazionale, anche attraverso la introduzione di sanzioni economiche, che avrebbero colpito al cuore il potere economico della giunta.

I militari infatti avevano e tutt’ora hanno il controllo, diretto od indiretto, di tutte le imprese, soprattutto di quelle che producono per la esportazione, a partire da quelle petrolifere. Suu Kyi sapeva che il boicottaggio dei prodotti birmani non avrebbe colpito il suo popolo e soprattutto i lavoratori, perchè tutti erano già ridotti alla fame e schiavi dei salari irrisori e del lavoro forzato, ampliamente utilizzato dalla giunta.

Subito dopo l’annuncio della sua liberazione, i cancelli della sua casa in University Avenue divennero un punto di incontro per migliaia di persone. Ogni giorno era una manifestazione. Suu Kyi usciva dal cancello della sua casa e con un megafono si rivolgeva alla folla, ogni giorno piccoli comizi che irritavano profondamente la giunta.

Il suo obiettivo principale era aprire il dialogo con il governo, perchè fosse rispettato il volere del popolo, espresso nelle elezioni del 90 e perchè la Convenzione Nazionale, lanciata dalla giunta per riscrivere la Costituzione del paese, abrogata nel 1974, fosse realmente una Convenzione con criteri democratici e con una partecipazione altrettanto democratica e paritaria.

non è mai semplice convincere coloro che hanno conquistato il potere con la forza della saggezza di un cambiamento pacifico

seguitava ad affermare.

Continuò a fare riunioni e a tenere comizi. Pur non potendo e volendo lasciare il paese, i suoi discorsi venivano letti in molti Convegni. Anche la Conferenza mondiale delle Donne di Pechino rese omaggio al suo coraggio e alla sua determinazione. Un suo videomessaggio aprì la Conferenza delle organizzazioni non governative.

Un intervento che intendeva parlare alle donne, ma anche e ai suoi oppositori.

la mia esperienza durante gli anni in cui sono stata impegnata nel movimento per la democrazia in Birmania mi ha convinto della necessità di enfatizzare gli aspetti positivi della tolleranza, che non è semplicemente vivi e lascia vivere. La tolleranza genuina richiede un impegno attivo per cercare di capire il punto di vista degli altri, significa una mente aperta e una visione come pure la fiducia nella propria abilità di affrontare le nuove sfide senza finire nella intransigenza o nella violenza…

Non è una prerogativa dei soli uomini di portare la luce in questo mondo: le donne con la loro capacità di essere comprensive e con il loro sacrificio, il loro coraggio e la perseveranza hanno fatto molto per dissipare il buio della intolleranza e di odio, di sofferenze e disperazione.[10]

La sua storia che l’aveva portata ad essere famosa, non aveva cambiato la sua natura schiva e semplice. Amava stare tra la sua gente perchè lei sentiva di essere considerata come una sorella maggiore e non come una persona importante. Riconosceva inoltre che la sua forza veniva dal coraggio degli altri.

non c’è nulla di paragonabile con il coraggio della gente comune i cui nomi sono sconosciuti ed i cui sacrifici passano inosservati. Il coraggio che osa senza riconoscimenti, senza la protezione della attenzione dei media, è un coraggio in grado di sconfiggere ed ispira e riafferma il nostro credo nella umanità .Questo coraggio l’ho visto settimane dopo settimane sin dal mio rilascio dagli arresti domiciliari quindici mesi fa.[11]

Un omaggio a tutte quelle migliaia di persone che si radunavano, nelle manifestazioni di fronte ai cancelli della sua casa. Un coraggio che le aveva dato la forza, nel 1999, di rinunciare ad andare in Gran Bretagna, dove suo marito stava morendo di cancro. La giunta gli aveva negato il visto di ingresso e avrebbe lasciato partire Suu Kyi, ma sicuramente le avrebbe impedito di tornare a Rangoon, dal suo popolo. Michael morì senza poter riabbracciare per l’ultima volta sua moglie. La sua determinazione riemerse poi quando per varie volte dal 1996 al settembre 2000, infranse il divieto uscire da Rangoon. L’ultimo braccio di ferro durò nove giorni. I militari antisommossa circondarono la sua macchina su di un ponte, bucarono le gomme e le impedirono di ripartire. Lei, pur di non cedere, rimase nella sua auto per tutti i nove giorni, sotto un sole cocente, senza cibo, né acqua a parte le scorte che si era portata. Le costò caro. Il 22 settembre fu messa nuovamente agli arresti domiciliari sino al 6 ottobre del 2002. Altri 19 mesi di arresti domiciliari.

L’ultimo suo arresto in ordine di tempo avvenne subito dopo il massacro di Depayin avvenuto il 30 maggio 2005. Quel giorno a Depayin nella provincia di Sagaing, il convoglio di macchine che scortava la Signora ed altri leader del partito, venne fermato ed attaccato dalle squadracce della USDA[12], mentre entravano in un villaggio dove era attesa da una folla di sostenitori. Centinaia furono i feriti e i morti lungo il percorso. Suu Kyi venne catturata dai militari e tenuta nascosta per giorni. Poi fu ricondotta agli arresti nuovamente, ma in forma più rigida che mai.

Dopo Depayin calò di nuovo un isolamento totale e feroce. Un isolamento che le periodiche dichiarazioni di condanna delle istituzioni internazionali e dei governi non riusciranno a scalfire, a meno che non si metta in moto una forte e coerente azione Internazionale, che superi le attuali ipocrisie e infingimenti. È tempo che il Consiglio di Sicurezza ONU discuta di Birmania, assuma decisioni chiare, anche usando le sanzioni economiche chieste da Suu Kyi ai governi, alle istituzioni internazionali e alle imprese, per attivare con tempi e scadenze certe un dialogo tripartito verso la democrazia. È tempo che Suu Kyi esca dalla sua casa prigione e possa liberamente vivere la sua vita di donna e di politica.



[1] Bangkok Post, 4 gennaio 1998 The Benefit of Meditation. www.brimaniademocratica.org

[2] Lettera dalla Birmania n.4 Thamanya: a place of peace and Kindness.

[3] il 20 luglio del 1989

[4] State Law Order Restoration Council

[5] The Humanist 11/1/1997 intervista di Clements Alan

[6] AFPFL : Anti-Fascist Peoplès League

[7] To be free. Stories from Asiàs struggle against oppression. Chee Soon Juan,

[8] letters from Burma n.6 Aung San Suu Kyi, 31.12.1995 Mainichi Daily News. www.birmaniademocratica.org

[9] Towards a true Refuge . 19 maggio 1993, The Joyce Pearce Memorial Lecture Refugee Studies Programme, University of Oxford . www.birmaniademocratica.org

[10] intervento di apertura al Forum delle ONG della Conferenza delle donne, Pechino 31 agosto 1955. www.birmaniademocratica.org

[11] Mainichi Daily News. Courage of ordinary people goes unmatched: “Tribute. Letter from Burma (No. 48) Aung San Suu Kyi. www. Brimaniademocratica.org

[12] Solidarity Development Association, una organizzazione creata dalla giunta