7/13/2006
Intervento Segretario Generale CISL Raffaele Bonanni al Forum di consultazione strategica sulla Birmania
Intervento del Segretario Generale CISL Bonanni al Forum di Consultazione strategica
Roma, 13.7.2006

Care amiche e cari amici,

E' un onore per me e per la mia organizzazione incontrare i rappresentanti del governo e del parlamento birmano democratico e i rappresentanti delle organizzazioni democratiche tra le quali i rappresentanti del sindacato clandestino

Milioni di lavoratori e lavoratrici tutt’oggi nel mondo che subiscono queste ingiustizie, nella totale o quasi indifferenza del mondo, dei governi, delle istituzioni internazionali.Il mercato, è considerato ancora oggi il grande e unico regolatore e in suo nome vengono ignorate, violate e stracciate sempre più spesso tutte le fondamentali norme internazionali del lavoro e dei diritti umani.

Non è un caso che quest’anno la CISL abbia voluto conferire il Riconoscimento Internazionale Giulio Pastore per i diritti umani e del lavoro  ad un giovane sindacalista birmano: Myo Aung Thant, per il suo coraggio, il suo sacrificio, il suo impegno personale nella lotta per l’affermazione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici birmane. Un impegno una lotta non violenta contro la dittatura militare, che sta pagando con il carcere a vita. Come per altro  è il caso di  Aung San Suu Kyi Premio Nobel per la Pace.  Una donna con una forte impronta pacifista e non violenta. Una donna di grande coraggio e determinazione che è agli arresti domiciliari da ormai dieci anni.

Senza alcuna retorica, la sua storia, come quella di Nelson Mandela, dimostra che la forza delle idee supera i confini ristretti delle prigioni e prima o poi vince. . Da tropo tempo si chiede la sua liberazione e quella degli altri leader politici, sindacali e religiosi.

Questo paese, la Birmania,  è stato scelto dalla CISL - non a caso-, insieme ad alcuni altri  tra cui la Cina, la Colombia, come simbolo di una globalizzazione sbagliata ed ingiusta. Ed anche come simbolo di una ipocrisia dei governi, delle istituzioni internazionali e di molti imprenditori, che pur sapendo, pur di fronte alla evidenza delle centinaia di migliaia di persone che tutt’oggi sono costrette al lavoro forzato, pur di fronte ai continui stupri, alle deportazioni di massa, alle razzie ambientali, al traffico di droga, preferiscono anteporre  altri interessi soprattutto economici, ma non solo, alla approvazione di scelte  chiare ed efficaci che potrebbero produrre una decisa svolta politica, costringendo la giunta militare a passare la mano alla democrazia.

Tutte le più importanti organizzazioni e istituzioni internazionali e moltissimi governi,  concordano almeno con il fatto che sino ad oggi la giunta non ha mostrato alcun segnale credibile d’apertura, che indicasse la volontà di un dialogo costruttivo con tutte le parti interessate, per l’avvio di un processo di democratizzazione del paese.La Birmania è un paese ricco di risorse, ma oppresso dal controllo totale non solo della vita politica, ma anche dell’economia. La giunta militare monopolizza tutta la produzione industriale e  agricola. Il sistema economico in mano ai militari  raggiunge così  tutti i livelli  e tutti i settori.

E’ impossibile fare affari in Birmania senza produrre profitti per la dittatura. Il resto del popolo non riceve nemmeno le briciole di questi business.

L’esercito controlla imprese industriali, commerciali e finanziarie. Il salario medio è di quattro o cinque dollari  al mese e la gente per sopravvivere è costretta a fare due o tre lavori insieme, a corrompere altri per un pugno di riso. Una situazione di estrema povertà in cui versa l’intero popolo, che non solo non interessa minimamente il potere birmano, ma è funzionale  a mantenere il dominio  e lo strapotere.

Tutto ciò è potuto e può avvenire in spregio alle raccomandazioni e risoluzioni politiche assunte da governi e istituzioni internazionali, grazie anche al fatto che sino ad oggi si sono  fatte moltissime dichiarazioni e le sanzioni di carattere politico non hanno ovviamente scalfito i malefici interessi economici su cui si basa il potere della giunta militare.  UN potere economico che si fonda sul riciclaggio del denaro della droga, sugli utili del lavoro forzato, sui salari di fame dei lavoratori pari a cinque o sei dollari al mese.  Nessun lavoratore birmano ha mai contestato, ma anzi ha salutato positivamente, la decisione da parte dell’OIL di mettere all’ordine del giorno la richiesta  alle imprese e ai governi di rivedere le proprie relazioni economiche con la Birmania, inclusi i Finanziamenti diretti esteri.  Perché da questi business non ricavano nessun vantaggio, anzi questi affari rafforzano la giunta e le loro violenze.

Il rappresentante OIL in Birmania è stato più volte minacciato di morte. Tutti coloro che  hanno continuato a denunciare al rappresentante OIL, la presenza del lavoro forzato sono stati arrestati e condannati a vari anni di carcere, perché queste testimonianze vengono considerate crimini contro lo stato.

Le costanti e continue violazioni della Convenzione sul lavoro forzato hanno costretto l’Organizzazione Internazionale del Lavoro a prevedere un ulteriore rafforzamento delle misure sanzionatorie nei confronti del governo birmano. Misure che verranno adottate definitivamente a Novembre, se la giunta non attuerà per allora una serie di misure sostanziali e strutturali.

Stiamo lavorando perché l’OIL possa ricorrere alla Corte Internazionale di Giustizia e perché vi sia l’interruzione di tutti gli investimenti stranieri questo paese..

La gravità degli sviluppi ci impone ancora di più il sostegno alle richieste del sindacato birmano e delle forze democratiche, che chiedono ai governi del mondo e alle istituzioni internazionali di fare con coerenza e determinazione la loro parte.

Ma la indifferenza di  molti governi, soprattutto asiatici, delle imprese e l’assenza di misure operative, fa si che ancora molti siano coloro che fanno ricchi affari con la giunta per sfruttare le risorse naturali, a partire dal gas e dal petrolio di cui è ricco questo paese. Risorse in mano dei militari, che per il  loro sfruttamento ha utilizzato e continua ad utilizzare il lavoro forzato.

Abbiamo chiesto in passato al governo  italiano  un impegno coerente e non ambiguo. Ripetiamo le nostre richieste la nuovo governo, compresa la introduzione di  procedure mirate a disincentivare i rapporti commerciali e le importazioni da questo paese, con seri controlli alle frontiere e con un dialogo con noi e gli imprenditori.

Come pure continueremo a chiedere alle istituzioni finanziarie internazionali di interrompere i finanziamenti alla giunta militare. Finanziamenti che si fermano nelle tasche dei militari, i quali, per altro, stanno impedendo anche il libero accesso  e l’operatività delle organizzazioni umanitarie internazionali, tanto da costringere il Global Fund per l’Aids a ritirare le ingenti risorse destinate alla lotta a questa terribile pandemia. Noi non siamo in genere a favore delle sanzioni. Ma la situazione birmana è particolare. Le sanzioni economiche ce le hanno chieste i lavoratori birmani, il popolo e le organizzazioni democratiche.

Gli effetti nefasti di questa dittatura non colpiscono solo la popolazione di questo paese, ma hanno pesanti ripercussioni politiche, sociali e per di più anche di sicurezza in tutta la regione e sul piano internazionale. Il nostro impegno, insieme a quello di molte altre organizzazioni sindacali ha fatto si che il Comitato Economico e Sociale dell’ONU – l’ECOSOC - discuterà a  fine luglio, della questione birmana.

Noi pensiamo che sia venuto il tempo  che anche il Consiglio di Sicurezza dell’ONU affronti questa crisi. Da subito abbiamo sostenuto infatti l’appello del Premio Nobel per la Pace Monsignor Desmund Tutu  e dell’ex Presidente della repubblica  Ceca Vaclav Havel, lanciato lo scorso ottobre . L’appello di queste due grandi personalità dimostra come come “le difficoltà della Birmania siano causa di problemi gravi e, forse permanenti, che vanno ben oltre le violazioni dei diritti umani e come  la Birmania si sia ormai trasformata in un problema per l’intera regione e per la comunità internazionale”.

Il rapporto  Havel Tutu mostra inequivocabilmente, come, purtroppo in Birmania, si realizzino tutti i criteri (rovesciamento di un governo democratico, conflitto tra fazioni, violazione di diritti umani, profughi, traffico di droga, HIV AIDS) previsti dall’Onu perché il Consiglio di Sicurezza possa intervenire  a salvaguardia dei diritti umani, a prevenire la guerra e a promuovere la stabilità politica internazionale.

Chiediamo pertanto  una Risoluzionie che obblighi il regime militare a lavorare con il Segretariato Generale dell’ONU per la messa a punto di un piano nazionale di riconciliazione, e perché  si avvii un serio dialogo tripartito  con il coinvolgimento di tutte le parti interessate. Oviamente la premessa dovrà essere la liberazione del Premio Nobel per la Pace  Aung San Suu Kyi e di tutti gli altri prigionieri politici e sindacali, a partire da Myo Aung Thant.

Per questo oggi riaffermiamo il nostro impengo a sostegno del  sindacato birmano nella sua difficile lotta. Come siamo impegnati a sostenere gli altri sindacati che nel mondo con fatica, sacrificio e enormi difficoltà si battono per la giustizia sociale e i diritti del lavoro. Il loro impegno è anche nell’interesse dei lavoratori e delle lavoratrici italiane.

Il loro futuro e il nostro sono strettamente legati.

La nostra dignità, la dignità del lavoro dei nostri giovani, dei nostri figli è legata anche  alla loro. La CISL lo sa.

Da qui il nostro impegno per un paese che sembra molto lontano, ma i cui drammi, le cui ingiustizie, il violento sfruttamento del lavoro si riverberano come una lunga onda, alla lunga, anche sulla dignità del nostro lavoro, sul nostro futuro e sulla nostra democrazia.