09/10/2006
«Birmania, cremate le vittime delle stragi»
Secondo le testimonianze, il fumo si è levato per giorni dalle ciminiere di Rangoon
«Birmania, cremate le vittime delle stragi»
I dissidenti denunciano: «Almeno duecento cadaveri bruciati in segreto»
BANGKOK (THAILANDIA) — La speranza della pacifica rivoluzione zafferano si è perduta, prima, nella violenza e nella crudeltà della repressione. E, ora, nell'orrore inimmaginabile dell'ultima rivelazione uscita dalla Birmania grazie al coraggio dei dissidenti. I militari starebbero utilizzando il crematorio pubblico che si trova a nordest di Rangoon per far sparire i corpi delle vittime della repressione, così da impedire ogni futura «conta del male».
«Ho visto personalmente bruciare 71 cadaveri »,
ha rivelato un testimone oculare alle fonti del Corriere. La notizia è
stata confermata, dall'ex capitale birmana, anche da un giornalista del
Sunday Times, anonimo per evidenti ragioni di sicurezza, dato che la
giunta militare è pronta ad arrestare qualunque reporter che sia
entrato nel Paese con l'unico stratagemma possibile: un visto
turistico. La descrizione di quanto avvenuto è raggelante ma non
consente di stimare un bilancio, neppure approssimativo, di quante
siano effettivamente le vittime della repressione. La giunta è ferma a
dieci uccisi «ufficiali». Mentre per l'opposizione democratica i morti
sarebbero «almeno duecento ». Secondo il settimanale britannico, fonti
differenti hanno riferito a diplomatici e volontari di organizzazioni
internazionali come, sin dalla notte del 28 settembre, ovvero a 24 ore
dall'inizio delle violenze nei monasteri e della sparatorie nelle
città, camion militari coperti da teloni verdi siano stati osservati
mentre si dirigevano nell'area del crematorio pubblico. Le strade che
portavano verso l'edificio erano guardate a vista da soldati in assetto
di guerra, pronti a minacciare di morte chiunque si fosse solamente
affacciato alle finestre di casa. «Non c'è stato alcun tentativo di
identificare i corpi — ha spiegato al reporter del Sunday Times un
diplomatico occidentale —. Nessuno si è preoccupato di restituire i
resti alle famiglie o semplicemente garantire un minimo rito funebre
secondo la tradizione buddista». Sandar Win, una dissidente esule a Mae
Sot, lungo la frontiera birmano-thailandese, pochi giorni fa aveva
confermato al Corriere: «Mio marito era rimasto in Birmania, era uno
dei leader della rivolta. È stato prelevato dalla polizia politica per
essere "interrogato". Pochi giorni più tardi i miei figli mi hanno
telefonato per informarmi della sua morte, "accidentale" secondo le
autorità. Abbiamo chiesto il corpo indietro: non abbiamo nemmeno avuto
una risposta». La pratica di bruciare i cadaveri per impedire un
bilancio ufficiale della repressione non è nuova, in Asia.
Anche l'esercito cinese fece sparire nello stesso modo i
resti di molti degli uccisi a piazza Tienanmen, nel giugno 1989. Allora
i camini del crematorio di Babaoshan, il «cimitero degli eroi» a
Pechino, emisero un lugubre fumo grigio per giorni: adesso lo stesso
agghiacciante spettacolo è visibile nell'ex capitale birmana. A
Rangoon, oltre a queste notizie, autentiche secondo la locale comunità
diplomatica perché confermate da fonti diverse, si sono diffuse voci —
anche queste credibili, purtroppo — che negli ospedali si registrano
ancora decessi nonostante la calma apparente nelle strade ormai perduri
da giorni. La ragione? «Ai medici — ha fatto sapere un volontario
straniero — non è stato consentito di curare i feriti: ordini precisi
dei militari. Senza alcun tipo di trattamento, è inevitabile che molti
tra coloro che hanno subito ferite possano essere morti nel giro di
pochi giorni». C'è da aggiungere che continuano gli arresti di civili e
monaci, con continui raid nei monasteri. Le autorità affermano che
sarebbero state sequestrate «armi e munizioni». E i media di regime
ammoniscono: «I monaci devono aderire alle leggi di Dio e del governo,
se violano tali leggi commettono reati».
Paolo Salom